domenica 30 ottobre 2011

Quella Notte Al Villaggio






Pensavo di averlo perso. Poi l'ho ritrovato quasi per caso. Con questo racconto vinsi il II Premio al Concorso Letterario Nazionale Spaccanapoli, molti anni fa.






Era venuto lì con un’idea: farla fini­ta. La vita, oramai, da quando aveva abbandonato il lavoro e da quando non c’era più Tina era diventata tristissima, insopporta­bile. Quest’anno poi era soprag­giunta anche la sua malattia e tutte le luci si erano spente. Erano stati Anna ed Enrico che avevano insistito perché lui andasse lì, in quel villaggio del Touring, in terra cilentana, affaccia­to sul mare, tra Capo Palinuro e Marina di Camerota. Lui aveva detto sì senza convinzione, pensando ormai che per quello che aveva deciso di fare un posto valeva l’altro. Era sceso contando i gradini che dagli alloggi portano alla spiaggia, chiuso nei suoi pensieri: erano 98, a meno che non si considerassero anche due piccole escrescenze rocciose che non erano gradini in senso stretto. Arrivò in riva al mare assorto nei suoi pensieri e non fece caso alle sei file di ombrelloni e sedie a sdraio, colore verde mari­no, ben allineate a 50 passi dal mare. L’automati­smo con cui procedeva non gli faceva neanche distinguere il variopinto campionario di gente che si presentava ai suoi occhi: per lo più “visi pallidi” appena sbarcati dal pullman di Milano;
altri della vecchia settimana già splendidamente dorati dal sole; qualche bambino freneticamente occupato a scavare buche nella sabbia e alcune adolescenti che con un pizzico di trasgressione mostravano il seno piccolo e puntuto agli sguardi indulgenti dei vicini di ombrellone. Passò sulle tavole di legno che scendevano a picco verso il mare costeggiando a sinistra le file di ombrelloni e si diresse verso un angolo appartato della spiag­gia, in fondo a destra, verso il roccione che delimi­ta la lingua di sabbia e di mare rispetto alla spiaggia dell’insenatura seguente. Stese l’asciu­gamano di spugna bordeaux a strisce gialle obli­que e si sedette col viso rivolto al sole che declinava velocemente verso l’ovest che lì era pressappoco in direzione di Palinuro. L’astro, colore arancio chiaro in quel momento, tramontava dopo una giornata di caldo agostano solo a tratti spazzata da un leggero vento di tramontana che aveva reso le ore precedenti più vivibili. Udiva l’urto dell’on­da sulla spiaggia; quel mare ora verde e ora azzur­ro, immenso ed impetuoso, quel giorno, sembrava evocare le tempeste del suo animo. Gli tornarono in mente le parole di Victor Hugo ne I miserabili: “V’è uno spettacolo più grande del mare, ed è il cielo; v’è uno spettacolo più grande del cielo , ed è l’interno dell’anima”. La sua, in quel momento, rappresentava un coacervo eterogeneo di senti­menti negativi, un misto di rabbia, delusione, disgusto che gli mostravano la vita come attraver­so due lenti scure Polaroid, polarizzate per re­spingere la luce. Volgendo lo sguardo al passato vedeva le sue sessantasette primavere con qual­che amarezza ma immerse in mille dolci ricordi; poi gli ultimi mesi segnati dalla mano crudele del destino che si era preso tutto e che lo lasciava adesso solo con la sua disperazione. Si stava al­
zando la marea e l’acqua si avvicinava sempre più ai suoi piedi, bagnando quella striscia ciottolosa di riva che fino a pochi minuti prima era rimasta asciutta. Stava spostandosi quando udì una voce femminile, chiara e gentile, che disse:
“Permette che riprenda il mio giornale?”.
“Prego, mi scusi, non vi avevo fatto caso”.
Glielo restituì meccanicamente e alzò il viso pro­prio mentre lei si spostava leggermente, stando con le spalle al sole, e scoprendo la sfera ignea dell’astro che andò ad illuminare in pieno viso il vecchio. Questi ne fu accecato e per qualche secon­do non riuscì a vedere nient’altro che un profilo scuro poi, abituando le pupille alla luce, riconob­be i tratti di una donna di media statura, più o meno della sua stessa età, magra, con un costume azzurro in lycra, tutt’un pezzo e scollato davanti e più profondamente di dietro. La pelle assai ab­bronzata non formava rughe vistose e solo sulla fronte qualche solco orizzontale denunciava l’età insieme al grigio dei capelli assai tirati sulle tem­pie e raccolti indietro da un grosso fermaglio colore cammello scuro. Provò un’istintiva simpa­tia per questa donna che vedeva per la prima volta e a cui non badò più un istante dopo. Si mise quindi a seguire le manovre di un surf dalla vela bianca e azzurra che tagliava l’acqua velocemente e parallelamente alla riva, ad una trentina di metri da quest’ultima. I movimenti sicuri e rapidi del pilota ricordavano le coreografie di una danza sudamericana e il gioco di luce, nei riflessi della vela bagnata, completava quell’insieme scenico assai bello da vedere. Seguì con gli occhi le evolu­zioni di quel giovane fino a che la tavola a vela non
divenne poco più di un punto in lontananza. Allora, fissando l’orizzonte gli tornarono i pensie­ri malinconici di prima, quelli che lo accompagna­vano sempre da qualche mese a quella parte. Si diceva che stava nel posto sbagliato: in mezzo alla vita, a tanta gente che si divertiva e voleva vivere e lui, invece, desiderava solamente morire. Rac­colse le sue cose che sistemò nella borsa di plastica grigia e, chiusa la cerniera lampo, si passò le maniglie dietro la spalla destra, poggiando il dor­so della mano sulla clavicola. Salì le scale lenta­mente, fermandosi ogni pochi gradini, per riprendere fiato e far passare chi saliva o scendeva più in fretta di lui. Arrivò alle docce e si lasciò investire da un getto tiepido di acqua, quasi fre­sco, che gli fece provare un gran refrigerio dopo l’arsura di quel giorno trascorso in parte a guidare sull’asfalto infuocato. Più tardi, asciugato e rive­stito, si mise automaticamente in fila al ristorante per la cena e, girandosi, si accorse che a fianco a lui c’era la donna della spiaggia che lo salutò con un sorriso cordiale e sincero che, in tutta evidenza, non voleva guadagnarsi nulla. Egli le rispose con un cenno timido del capo e un po’ rudemente com’era solito fare quando qualcuno gli si rivol­geva inaspettatamente. La sua scorza lo mostrava un po’ come un orso a chi non lo conosceva pro­fondamente, ma dentro egli era assai sensibile ed influenzabile. Tanti buoni cibi erano contenuti in recipienti riscaldati in fila davanti a lui che, pas­sando col vassoio, doveva indicare quelli di suo gradimento. Una volta teneva molto al mangiare e avrebbe goduto assai di quella buona cena dopo una giornata di digiuno. Scelse delle pennette alla calabrese di cui si avvertiva l’odore del peperoncino mischiato al sugo di pomodoro e agli aromi e della noce di vitello con fagiolini al burro.
Pensò che per quel giorno poteva anche non bada­re al colesterolo. Mentre, sollevato il vassoio con i piatti e con la brocca del vino, cercava un posto nelle sale ristorante, la donna che gli stava a fianco gli disse: “Ci sono due posti, lì al terzo tavolo”. Vi si diresse senza rispondere e prese posto di fronte a lei. “Mi chiamo Stefano”, le disse sedendosi. “Ed io Piera”, le rispose la donna uniformandosi alla moda dei villaggi dove i cognomi sono banditi e se non c’è il tu c’è almeno la confidenza di chia­marsi e di conoscersi solamente per nome.
“Sono qui da venerdì scorso, ma a lei l’ho vista solamente oggi”.
“Infatti sono arrivato questo pomeriggio, ma non ci star... mi fermerò solo pochi giorni”.
“È il primo anno che vengo in un villaggio ­continuò la donna con un sorriso - sa, sono vedova da poco e i figli sono grandi ormai”.


“Già”, disse lui e pensò a quella serenità che contrastava con la sua condizione, così simile alla propria, sul piano esistenziale. Mangiarono scam­biandosi qualche parola, ma fu più lei a parlargli. Gli raccontò un po’ della sua vita, dei dolori passati, della sua grande passione per la lettura, della sua fede... “Forse è per questo che riesce a sorridere, nonostante tutto; - pensò il vecchio - io non ho neanche quella a sorreggermi, ho sola­mente un gran vuoto dentro”. Ripercorse mental­mente gli ultimi anni della sua vita, da quando era diventato “vecchio”, a quarant’anni: la carne che mangiava gli si incastrava negli spazi interstiziali fra i denti e quando chiese al suo dentista quanto sarebbe durato quel fastidio, quello gli rispose
“Per sempre”. Era diventato vecchio. Ma, nono­stante ciò, aveva vissuto lo stesso con tanta grinta, fino a quell’anno, quando il destino gli aveva tolto Tina, il lavoro, tutto. Quelli di Milano parlavano di tetto da raggiungere, di piano quinquennale da rispettare, di trend di vendite. Lui non se l’era più sentita, s’era fatto da parte, non ce la faceva più a combattere per “distruggere la concorrenza”: se lui avesse riso ci sarebbe stato un altro a piangere. Questa logica gli sembrava quella della giungla, della belva più grossa che divora la più piccola. La concorrenza, come s’intendeva oggi, non era altro che l’antico motto “mors tua vita mea”. E lui, a quel prezzo non voleva più rimanere in pista. La lotta per la sopravvivenza poteva avere un signi­ficato in chi è costretto a cacciare per vivere o a pescare, come il vecchio Santiago che lotta per giorni, disperatamente, contro il grossissimo pe­sce nel più bel romanzo di Hemingway. Ma oggi, nel 1987, nelle metropoli industriali dove la giacca e la cravatta dovrebbero rappresentare la civiltà, la fine dell’oppressione, del bisogno, la tregua nella lotta... No, ormai la decisione era presa, avrebbe abbandonato presto questa valle di lacri­me. Mentre pensava questo i suoi occhi furono nuovamente illuminati dal sorriso di Piera che gli stava chiedendo di andare ad assistere assieme allo spettacolo dell’animazione. Si sedettero in quarta fila, dove trovarono posto in mezzo ad altri soci, più indietro dell’area presidiata dai bambini che scorrazzavano per la pista. Le due grosse casse acustiche da 80 watt ciascuna diffondevano musica per i piccoli mentre quelli dello staff pre­paravano la scena per lo spettacolo che sarebbe cominciato alle ventuno e trenta. La pista pavi­mentata con mattonelle rettangolari di cotto arancione si stendeva su di una superficie di circa
40 metri per quindici, tra grossi olivi secolari che di giorno stendevano tutt’intorno una fresca om­bra dove si rifugiava chi amava meno il sole e il mare. Alle spalle della pista c’erano le terrazze di terra che digradavano fino al mare, settanta metri più sotto. Davanti e ai lati, su cinque file di sedie, prendevano posto i circa quattrocento ospiti del villaggio, in quel momento occupati in parte a portare l’acqua minerale nei capanni o a telefona­re alle due cabine dietro il bar. Su tutto un cielo stellato visibile, in quel momento, perché le luci della pista erano spente e la luna era al suo primo quarto, bassa sull’orizzonte occidentale. Piera aveva indossato una gonna di gabardina leggera, nera, e una camicetta di seta rossa, con i bottoni bianchi davanti. Un laccetto d’oro con un ciondolo d’avorio le pendeva all’altezza della scol­latura che mostrava la pelle ancora liscia ed ab­bronzata. Al braccio sinistro, scoperto come quello destro fino al gomito, era un orologetto d’oro col cinturino di pelle chiara. Un profumo forte ma non aggressivo l’avvolgeva completando quel-l’insieme assai gradevole che, per la prima volta, Stefano guardò come una donna. Non voleva rico­noscerlo ma lei gli piaceva, gli faceva riprovare delle sensazioni antiche, lo scoteva dal suo torpo­re pessimista e minacciava di fargli fare dei pro­getti. “Alla mia età - pensò lui - sarei ridicolo!”. Però, chissà per quale combinazione del pensiero tornò a rivedere, nella sua mente, la scena del-l’amore senile, tra quei due vecchi del film La notte di San Lorenzo, dei fratelli Taviani. Era stata bellissima, piena di tenerezza e aveva dimostrato come due esseri possono amarsi anche in un’età non più verde, senza suscitare alcuna ilarità, ma ­anzi - commozione. A interrompere quel pensiero furono le musiche di Nino Rota del film “Otto e
mezzo” di Fellini, sigla di apertura delle serate di animazione al villaggio. Il faro illuminò il centro della pista e fece la sua comparsa un giovane poco più che trentenne vestito con una camicia di seta azzurra elegante e dei pantaloni neri lucidi. Disse qualche parola di benvenuto ai nuovi ospiti e passò a cantare, dal vivo, alcune canzoni molto popolari degli anni Sessanta e Settanta. La voce era alquanto bella e non faticò a strappare molti applausi, soprattutto da parte dei vecchi ospiti che lo incitavano chiamandolo per nome: “Dai, Renato! Ancora!”. E lui non si fece pregare, accon­tentando anche qualche richiesta del pubblico, dopo aver consultato la ragazza alla regia per sapere se avevano la base sonora per quel pezzo e per quell’altro. Quando attaccò le prime note di “Volare” ci fu un grosso applauso e in molti fecero il coro battendo anche le mani a ritmo cadenzato. Poi fu annunciata la gara di ballo e, mentre i vecchi ospiti nascondevano la testa dietro le spal­le dei nuovi, alcuni vennero invitati a scendere in pista e ad indossare un numero dietro la maglietta

o la camicia. Fu così che anche lui si trovò tra loro, trascinato da Piera che non sembrava imbarazzata dai riflettori, dagli sguardi, dalle probabili gaffes che avrebbero prodotto insieme. “Non so se sono in grado, sono passati tanti anni...”, disse Stefano tentando di schivare l’offerta, ma lei lo tirò delica­tamente per un braccio e con un sorriso cancellò le preoccupazioni dal suo viso :”Vedrà, qui sono molto indulgenti”. Il numero che contrassegnava la coppia lo portava l’uomo e a loro capitò il nove. Renato, l’animatore, spiegò che avrebbero potuto astenersi dal ballare un pezzo, mentre avrebbero dovuto giocare un jolly al ballo nel quale si senti­vano più forti e che gli avrebbe reso un punteggio doppio. La giuria, composta tutta da ospiti, sede­
va nelle prime posizioni davanti alla pista. Si diede il via e le prime note di un valzer echeggia­rono in quello spiazzo in mezzo agli alberi, illumi­nato da molte luci, con un volume piuttosto alto, tra un pubblico attento e non ancora incline all’ammirazione o all’ironia. Qualche coppia, so­prattutto la cinque e la sei, se la cavava benissimo e seguiva elegantemente le note del disco com­piendo molte evoluzioni ed offrendo al pubblico continuamente un proprio lato diverso da osser­vare. C’era anche qualche imbranato che inciam­pava e si ostacolava con la dama, rompendo l’armonia della musica e suscitando qualche ilari­tà tra il pubblico, subito tacitata dai commenti indulgenti e incoraggianti dell’animatore: “È un gioco, siamo qui per divertirci...”. Stefano, medio­cre cavaliere, faceva del suo meglio per non attrar­re l’attenzione su di sé e, un po’ stordito da quei giri veloci cui non era più abituato, fu confortato dalla fine del brano musicale. Erano ancora vicini, l’uno a fianco all’altra, e si sentiva il profumo di lei che mischiava gli effluvi dell’acqua di colonia a quelli del bagnoschiuma della doccia e a quello più intenso della pelle. A Stefano piacque ma pensò anche che non se la sentiva di continuare quello sforzo, lì al centro dell’attenzione, mentre cominciava a sudare e con lo spirito non adatto a quelle goliardie che non lo entusiasmavano più. Le chiese di andar via e, ancora una volta, fu sorpreso dalla schietta disponibilità di lei. Sgu­sciarono via al momento giusto e si diressero verso il mare, come se se lo fossero detto prima, ma senza aver pronunciato neanche una parola. Scendevano le scale già da un po’ quando si accor­sero entrambi che erano silenziosi, ma restarono a loro agio. Questo piacque molto a Stefano che preferiva i silenzi alle parole. Sulla spiaggia c’era­
no solo tre ospiti che armavano una barca per la pesca alla lampara. Uno di loro aveva indossato una muta di gomma nera che gli copriva tutto il busto, fino all’altezza delle ginocchia. Un leggero vento dal nord aveva ripreso a sferzare dolcemen­te l’aria e portava loro l’odore degli olivi che si mischiava al profumo del mare quasi calmo in quel momento. Tutto era dolce e quieto, rotto a tratti dai lontani suoni della musica del villaggio che, a seconda del vento, portava loro l’allegria di quella folla.
“Non le piace stare con la gente?”, gli chiese mentre si fermavano a pochi passi dalla riva.
“Non oggi, non in questo periodo. Ci sono mo­menti durante i quali si sta meglio in compagnia del silenzio che in mezzo agli altri”.
“Credo di capirla. Ma che cosa la rende tanto triste?”.
Lui avrebbe voluto non rispondere, valutando l’inutilità di quel dialogo. Guardò i riflessi argentati della luna sull’acqua ed ascoltò un atti­mo il brontolio delle onde che si rompevano sulla riva. “Credo - disse - che la vita mi sia diventata inutile. Non ho più interessi, ambizioni, affetti da conservare. Di fronte a me c’è solo l’irreversibilità di una vecchiaia solitaria, un lungo tunnel buio fino alla morte”.
“Io credo, invece - rispose lei, che si tratti sola­mente di un brutto momento. Sul capo di ognuno passano, a volte, grosse nuvole, ma poi torna il sereno. Ciò che sembra eterno è solo passeggero ed il sole segue la pioggia come la primavera
l’inverno. Questa morte che si porta dentro e che si legge sul suo viso si può combattere. Si chiama depressione. A volte può bastare qualche milli­grammo di benzedrina...”.
“No, i farmaci non possono darci quello che la vita ci nega e poi perché non la droga o l’alcool, allo­ra?”.
La donna lo guardò un attimo in silenzio, non sapendo cosa rispondere a queste parole o rite­nendo ovvia una risposta. Anche lei si trovava nella parte terminale del suo viaggio della vita, anche lei aveva pagato un alto prezzo alla vita, ma a differenza di lui sperava, credeva ancora nel domani, negli uomini, nei sentimenti. La sua voce si fece più dolce, più femminile e quasi sussurran­do gli chiese: “Non crede all’amore?”.
“No”.
“Perché?”.
“Perché penso che a monte di tutto ci siano sola­mente tanti egoismi, tanti piccoli o grandi o grandissimi egoismi che si confrontano. Credo all’antico detto Homo homini lupus, l’uomo è lupo all’uomo, l’uomo divora il suo simile. Ognu­no ama soprattutto sé stesso, il resto è ipocrisia, finzione, demagogia. Bisognerebbe educare i ra­gazzi, fin nei primi anni scolastici, a cavarsela da soli, a fare a meno degli altri. Invece si dice loro che c’è l’amore, la fraternità, l’amicizia. Ma lei l’ha mai conosciuto un amore vero, non condizionato dalla passione dei sensi o dalla complicità di un accordo per sfidare in due, anziché da soli, le insidie del destino?”.
“Non credo che lei sia così cinico come vorrebbe far credere, - soggiunse lei e la sua voce divenne ancora più carezzevole - io credo che si esprime così perché ha vissuto di recente un grosso dolore e non ha avuto il tempo sufficiente per far cicatriz­zare la ferita”.
“Può darsi” rispose lui distrattamente e si mise a seguire, con lo sguardo, il volo basso di un gabbia­no che planava verso il mare inclinandosi su di un fianco per poi riprendere quota con brevi e intensi colpi d’ala. In lontananza si udiva sempre la mu­sica della pista e, molto più debolmente, lo stridio di gomme di qualche macchina che affrontava male la curva grande, sulla statale per Sapri, pri­ma dell’ingresso del villaggio. Visto così, in piedi davanti al mare, col viso serio e lo sguardo perso dietro un pensiero, l’uomo aveva un certo che di affascinante, pur non essendo bello. Dalla camicia aperta sui primi quattro bottoni si scorgeva il petto glabro e uno stomaco da ventenne che denunciava il suo distacco dai piaceri e forse anche qualcos’altro. Una malattia? Forse. Era quel­la, pensava Piera, che lo tormentava tanto? Lei, lo sentiva, avrebbe potuto aiutarlo, gli sarebbe potu­ta stare vicino, lo avrebbe accudito: sentiva, da quando lo aveva visto quel pomeriggio che qual­cosa era avvenuto in lei, qualcosa di magico, come tanti anni prima. Non c’era stata premeditazione né disegno alcuno. Si sentiva semplicemente at­tratta da quell’uomo e, pensava, forse neanche lei gli era indifferente. Ma come sottrarlo dal fondo di quei suoi pensieri neri? Si può far mai deside­rare l’acqua a qualcuno che non ha sete? E poi chi le diceva che non si stava sbagliando, che non fosse tutto un abbaglio, una specie di piccolo
incanto partorito con la complicità di quella notte stupenda? Lo fissò, standogli di fianco, un po’ più indietro, a destra. Lui lo avvertì e si girò incrocian­do con i suoi gli occhi di lei. Si guardarono per un attimo che sembrò lunghissimo. In loro non c’era né proposta né rinuncia, si sentirono semplice­mente assai vicini. Fu lui, poi, ad abbassare lo sguardo ed il super-Io riprese il controllo rigido dei sentimenti. La sua censura interna era rientra­ta in funzione e la griglia dei sentimenti aveva ripreso ad imbrigliare le forze di dentro che, a sprazzi, lottavano con la ragione, con l’uomo che stava diventando duro, che ogni giorno di più rassomigliava ad un misantropo, con la morte nel cuore, con questo grosso desiderio di scomparire, di gettare la spugna sul quadrato della vita. Ad un tratto si scosse, per un momento non capì, poi si accorse che qualcosa di morbidamente rigido gli aveva urtato una gamba: era una palla di gomma grande quanto un palmo aperto, gialla con piccoli disegni rossi. La inseguiva una bimba che poteva avere tre anni o anche meno, vestita con un abitino di cotone rosa con delle bretelline fatte di nastro dello stesso colore. Non portava scarpe e il viso segnava l’accanimento ottimistico con cui i bam­bini riempiono d’importanza anche le operazioni più banali. Dieci passi più indietro venivano, in quella direzione, un uomo e una donna, probabil­mente i genitori della piccola. Questa si fermò davanti a Stefano e lo guardò alzando molto il viso, essendosi fermata la palla proprio davanti a lui, frenata in un incavo della sabbia.
“Come ti chiami?”, chiese l’uomo.
“Paola” rispose con decisione la bimba che mo­strava già una forte comunicativa.
Allora Stefano si abbassò, piegandosi un po’ sulle ginocchia, e -prendendo la palla - gliela porse. Lei, dopo averla afferrata con due mani la lasciò cade­re e poi l’inseguì per colpirla con il collo del piede. Si allontanò da dove era venuta.
“Perché non ci sediamo qualche minuto?”, disse Piera.
Lui lo fece senza rispondere e la donna gli si sistemò a fianco, quasi attaccata.
“Non ha nipoti piccoli?” gli chiese nuovamente rompendo il suo pensieroso silenzio.
“No, mia figlia non ne ha voluti. Credo che mi sarebbe piaciuto. Ma più per egoismo. Poi penso, però, alle pappe da preparare, ai pannolini da cambiare, alle mille incombenze cui va incontro ogni nonno nei momenti di emergenza e mi dico che, tutto sommato, è stato meglio così”.
La donna lo guardò, quasi lo scrutò, come se volesse carpirgli i segreti più intimi e gli chiese: “Dunque non c’è nulla che le interessi, che le dia voglia di alzarsi la mattina, di iniziare una nuova giornata? Un piacere, che so, un hobby, una vec­chia abitudine, un interesse che potrebbe diventa­re più consistente?”.
Stefano stava per rispondere automaticamente di no, ma poi si fermò a riflettere un istante. In effetti c’era qualcosa che da qualche ora stava turbando il suo pessimismo. Era una tenue fiaccola in una grotta buia che rischiarava, con un pallore rossastro, solamente un piccolo lato dell’antro.
Questa luce era lei, una minuscola promessa in una galassia di minacce. Non poteva più nascon­derselo, si stava innamorando, quella donna lo attraeva, era scattato qualcosa ch’egli non riusciva a definire bene, ma che gli piaceva, che avrebbe potuto diventare un sentimento positivo... Lei si accorse che qualcosa stava cambiando, che l’aura di elettricità intorno a lui stava cadendo, che l’uo­mo stava emergendo, che l’umanità si manifesta­va.
“Perché non si lascia un poco andare?” gli chiese e gli appoggiò dolcemente la mano sul dorso della sua mentre gli occhi, più con certezza che con speranza, incontrarono i suoi: fu un attimo, lui girò le dita e gliela strinse.


Ciro Discepolo


II classificato al Premio Letterario Spaccanapoli 1987
Un racconto per la vita








For the female friend of Mordecai

Dear Mordecai, these two locations can be well. Best wishes.






P.S. Per gli stagnini dementi (e con Mercurio quadrato stretto a Saturno): i piccoli e ininfluenti bug di Aladino non li abbiamo mai corretti perché ci costa troppo e ci fa perdere tempo che invece utilizzo a scrivere libri. Resta, invece, sempre valida la scommessa di 10.000 euro che il mentecatto giunge a sbagliare anche 15° su di un cielo di nascita italiano (ma già gli stanno saltando le valvole, ora se la fa anche addosso) e sono pronto a qualunque confronto: in pubblico, senza maschera, faccia a faccia e senza protezione (non temete, tanto la citazione non la capisce).









For all. This is not an important piece of news but I ask you to read it anyhow because it will explain, to some, the background noise which has been disturbing Astrology for some years (Per Tutti. Non è una notizia importante, ma vi invito a leggerla in quanto potrà spiegare, a qualcuno, il perché di un certo rumore di fondo che disturba, da qualche anno, l’Astrologia. Appena avrò un po’ di tempo, creerò altri tre o quattro blog per altre persone su cui vi state ponendo delle domande):













Buona Giornata a Tutti.
Ciro Discepolo
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3 commenti:

  1. Per Sergio.
    permettimi un altro consiglio. Non scegliere mai una destinazione di compleanno per comodità di viaggio o economica: le RSM non sono la lampada di Aladino e per ottenere i risultati desiderati bisogna mirarle bene, anche a costo di viaggi difficili (non è questo il caso, comunque).
    Le soluzioni Shangai e Hiroshima si assomigliano molto e hanno la stessa impostazione astrologica.
    Chiedo scusa a Niko, ma mi permetto di insistere su Hiroshima, perchè, con Shangai, basterebbe tu fossi nato 3 minuti dopo e rischieresti uno stellium in 6a casa, una posizione molto pesante. Inoltre i vantaggi di Giove in X con Hiroshima sarebbero potenziati dalla strettissima congiunzione al MC.
    Di nuovo auguri
    Ludovico

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  2. Un saluto a tutti, per Ludovico: non te la prendere neanche tu ma allora anche Hiroshima potrebbe essere pericolosa per Sergio poichè, se fosse nato attorno alle 16.11 si beccherebbe ugualmente uno stellium in sesta! diciamo allora pure che una località dove non rischierebbe nulla è Beaufort in Australia (latitudine 37°25' sud e longitudine 143°23' est), dove si dovrà trovare il giorno 29/11/2011 alle 23.40 ora locale.

    P.S. E' più probabile che una persona possa essere nata prima e non dopo l'orario dell'estratto di nascita.



    Niko

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  3. Its mordecai again, dear ciro

    I don't see which places are the ones you posted

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