Ho visto un paio di volte il film Onora il padre e la madre, del vecchio leone cinematografico Sidney Lumet e trovo che sia un buon film, anche se non straordinario. Certamente l’arte, la sapienza cinematografica, il mestiere, dell’anziano regista di grandissimi film come The Pawnbroker (L’uomo del banco dei pegni, 1964, con Rod Steiger, film indicato con 8 stelle nelle migliori classifiche americane e mancante in Italia da quando portavo i calzoni corti) e di Quinto potere, si fanno sentire in tutta la loro potenza. Però, se dovessi fare un paragone tra Sidney Lumet e i fratelli Coen direi che il primo è un grande artigiano del cinema e gli altri due sono dei geni cinematografici, autori a tutto campo.
Il richiamo ai due fratelli cineasti da poco pluripremiati a Hollywood è quasi d’obbligo data la somiglianza apparente tra le loro due pellicole. Tuttavia, a un esame attento, la differenza è abissale, soprattutto inscritta nel messaggio di speranza al termine della storia raccontata dagli autori di Fargo e di L’uomo che non c’era, in contrapposizione con un cupo pessimismo del film di Sidney Lumet.
Quest’ultimo è forse un film moralista. Ma moralista non corrisponde a un insulto e può anche essere sinonimo di realista. In una metropoli americana dove non c’è neanche conflitto tra il Bene e il Male, dato che regna sovrano il secondo, si intrecciano alcune storie tutte segnate da un degrado morale senza fine e dove l’unico problema che assilla tutti è come procurarsi più denaro, per esempio per accedere a droghe assai sofisticate (è il caso di Andy interpretato magistralmente da Philip Seymour Hoffman. Tutti gli attori recitano alla grande e primo fra tutti quel mito vivente che è Albert Finney). E Andy ha un ottimo lavoro e una moglie affascinante (Marisa Tomei). Oppure è la situazione di suo fratello Hank (Ethan Hawke) che non possiede un dollaro, è pieno di debiti, ha un paio di mogli da mantenere e va a letto con la cognata. Vi è poi una breve antologia di genìa umana varia, ma sempre fotografata ai livelli minimi di separazione tra gli uomini e le bestie (queste ultime fanno sempre da punto di riferimento negativo, ma credo sia ormai tempo di invertire un simile ingiusto giudizio).
In breve i due fratelli decidono di trovare una scorciatoia per avere quello che dovrebbero attendere di ricevere con una regolare eredità alla morte dei propri genitori e di rapinare la gioielleria di questi. Il resto è cronaca: la rapina va male, la madre viene uccisa, i fratelli si mostrano contriti e tutto viene rappresentato nella migliore tradizione retorica possibile. Le uniche figure che sembrano salvarsi in questo crudo movie di Lumet sono la madre che è morta perché ha tentato di difendersi e il padre (Albert Finney) che uccide il figlio Andy, ma lo fa in un contesto in cui lo spettatore è indirizzato a condividere una simile scelta sulla spinta di uno sdegno senza fine che traspare perfino attraverso la respirazione dell’anziano genitore quando giunge a conoscenza dei fatti.
Questo film, sotto molti aspetti, assomiglia a tanti altri dello stesso genere, come America Oggi di Robert Altman (1993) o Magnolia di Paul Thomas Anderson (1999) oppure American Beauty di Sam Mendes (1999), tutte pellicole che ci rappresentano un quasi totale degrado tanto generalizzato da giustificare il titolo del film di Altman (nella versione italiana). Anche il recente Crash dell’esordiente Paul Haggis (2005), vincitore di ben tre statuette, è la parabola della già denunciata incomunicabilità antonioniana che, in una città come Los Angeles, in cui tutto e tutti sono separati da “metallo e vetri”, si rappresenta come l’unico modo di entrare in contatto con il prossimo è fare Crash (scontrarsi). E nel film ci sono tanti crashes, tutti dominati dall’odio apparentemente razzista dei personaggi della storia, ma che secondo me è odio e basta verso il prossimo, condito da dosi massicce di diffidenza e di convincimento che ormai viviamo in una giungla dove o ammazzi per primo o sarai ammazzato. Come in un cerchio che ci ricorda Babel, di Alejandro González Iñárritu (2006), i personaggi della pellicola entreranno tutti reciprocamente in contatto tra loro, nel peggiore dei modi, ma il film termina con delle banali piccole buone azioni, che vorrebbero essere minivisioni ottimiste alla Frank Capra, ma che – a mio parere – restano solo delle improbabili conclusioni di tante piccole tragedie.
Ancora una volta mi viene da apprezzare l’apparente simile capolavoro di Ethan e Joel Coen.
P.S. Nel giorno della rapina, nel film di Lumet, cadeva il compleanno del padre.
Caro Uranio12, se proprio lo vuoi sapere, odio il Natale perché è una minaccia d’inverno e amo la Pasqua perché, di solito, è una promessa d’estate…
E in queste Sante Feste preghiamo anche affinché Alberto non si dia più a letture sconce.
Grazie a Celeste, Doriana, Graziano e agli altri per gli auguri e benvenuto Albertolai a cui vorrei raccomandare di non essere intimorito dall’ottima preparazione di molti bloggers qui presenti: a volte le grandi idee vengono fuori anche da osservazioni o domande apparentemente banali.
Il richiamo ai due fratelli cineasti da poco pluripremiati a Hollywood è quasi d’obbligo data la somiglianza apparente tra le loro due pellicole. Tuttavia, a un esame attento, la differenza è abissale, soprattutto inscritta nel messaggio di speranza al termine della storia raccontata dagli autori di Fargo e di L’uomo che non c’era, in contrapposizione con un cupo pessimismo del film di Sidney Lumet.
Quest’ultimo è forse un film moralista. Ma moralista non corrisponde a un insulto e può anche essere sinonimo di realista. In una metropoli americana dove non c’è neanche conflitto tra il Bene e il Male, dato che regna sovrano il secondo, si intrecciano alcune storie tutte segnate da un degrado morale senza fine e dove l’unico problema che assilla tutti è come procurarsi più denaro, per esempio per accedere a droghe assai sofisticate (è il caso di Andy interpretato magistralmente da Philip Seymour Hoffman. Tutti gli attori recitano alla grande e primo fra tutti quel mito vivente che è Albert Finney). E Andy ha un ottimo lavoro e una moglie affascinante (Marisa Tomei). Oppure è la situazione di suo fratello Hank (Ethan Hawke) che non possiede un dollaro, è pieno di debiti, ha un paio di mogli da mantenere e va a letto con la cognata. Vi è poi una breve antologia di genìa umana varia, ma sempre fotografata ai livelli minimi di separazione tra gli uomini e le bestie (queste ultime fanno sempre da punto di riferimento negativo, ma credo sia ormai tempo di invertire un simile ingiusto giudizio).
In breve i due fratelli decidono di trovare una scorciatoia per avere quello che dovrebbero attendere di ricevere con una regolare eredità alla morte dei propri genitori e di rapinare la gioielleria di questi. Il resto è cronaca: la rapina va male, la madre viene uccisa, i fratelli si mostrano contriti e tutto viene rappresentato nella migliore tradizione retorica possibile. Le uniche figure che sembrano salvarsi in questo crudo movie di Lumet sono la madre che è morta perché ha tentato di difendersi e il padre (Albert Finney) che uccide il figlio Andy, ma lo fa in un contesto in cui lo spettatore è indirizzato a condividere una simile scelta sulla spinta di uno sdegno senza fine che traspare perfino attraverso la respirazione dell’anziano genitore quando giunge a conoscenza dei fatti.
Questo film, sotto molti aspetti, assomiglia a tanti altri dello stesso genere, come America Oggi di Robert Altman (1993) o Magnolia di Paul Thomas Anderson (1999) oppure American Beauty di Sam Mendes (1999), tutte pellicole che ci rappresentano un quasi totale degrado tanto generalizzato da giustificare il titolo del film di Altman (nella versione italiana). Anche il recente Crash dell’esordiente Paul Haggis (2005), vincitore di ben tre statuette, è la parabola della già denunciata incomunicabilità antonioniana che, in una città come Los Angeles, in cui tutto e tutti sono separati da “metallo e vetri”, si rappresenta come l’unico modo di entrare in contatto con il prossimo è fare Crash (scontrarsi). E nel film ci sono tanti crashes, tutti dominati dall’odio apparentemente razzista dei personaggi della storia, ma che secondo me è odio e basta verso il prossimo, condito da dosi massicce di diffidenza e di convincimento che ormai viviamo in una giungla dove o ammazzi per primo o sarai ammazzato. Come in un cerchio che ci ricorda Babel, di Alejandro González Iñárritu (2006), i personaggi della pellicola entreranno tutti reciprocamente in contatto tra loro, nel peggiore dei modi, ma il film termina con delle banali piccole buone azioni, che vorrebbero essere minivisioni ottimiste alla Frank Capra, ma che – a mio parere – restano solo delle improbabili conclusioni di tante piccole tragedie.
Ancora una volta mi viene da apprezzare l’apparente simile capolavoro di Ethan e Joel Coen.
P.S. Nel giorno della rapina, nel film di Lumet, cadeva il compleanno del padre.
Caro Uranio12, se proprio lo vuoi sapere, odio il Natale perché è una minaccia d’inverno e amo la Pasqua perché, di solito, è una promessa d’estate…
E in queste Sante Feste preghiamo anche affinché Alberto non si dia più a letture sconce.
Grazie a Celeste, Doriana, Graziano e agli altri per gli auguri e benvenuto Albertolai a cui vorrei raccomandare di non essere intimorito dall’ottima preparazione di molti bloggers qui presenti: a volte le grandi idee vengono fuori anche da osservazioni o domande apparentemente banali.
Buona giornata a Tutti.
1 commento:
Cari bloggers vi segnalo un importante sito web di astrologia: www.enzobarilla.eu
Saluti........
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