martedì 21 dicembre 2021

È stata davvero la mano di Dio a regalarci il nuovo bellissimo film di Sorrentino

 


È stata davvero la mano di Dio a regalarci il nuovo bellissimo film di Sorrentino. O, almeno, così direi se fossi credente. 

Non è facile seguire, apprezzandolo, il cinema del nostro grande autore cinematografico, soprattutto se vogliamo leggere i suoi racconti in modo alto, consapevole. E per fare ciò credo si debbano possedere lenti potenti prodotte da bravi occhialai che sappiano parecchio di navigazioni a mezzo della psicoanalisi, dell’astrologia, del linguaggio simbolico, delle tematiche junghiane in particolare e di tanta cultura in generale.

Prendiamo le prime scene, per esempio. Sorrentino, con il drone o con un elicottero (non ha importanza) ci fa entrare, insieme a lui, planando dall’alto, nella città di Napoli, grosso modo sotto il museo di San Martino. È il tramonto, in tutta evidenza: Castel dell’Ovo è illuminato dal sole dalla parte giusta. Poi la camera insegue la corsa, su di una via Caracciolo vuota, di un splendido veicolo anni venti/trenta, nero e lucidato alla perfezione. Dentro c’è niente meno che San Gennaro, elegantissimo, in abito da prima al San Carlo, che avvicinandosi ad una donna bella e procace alla fermata del bus, in uno di quei casini di traffico già raccontati da De Crescenzo, chiede: “Vuoi un passaggio? Il 412 chi sa fra quante ore passerà…”. La donna è riluttante. San Gennaro la chiama per nome e le dice anche il nome del marito “Franco, mi sembra…”. “Tu non puoi avere figli, ma se vieni con me ti spiego come fare per averne”. Allora la donna sale in auto e va con lui in una vecchissima casa dei Quartieri Spagnoli o della Sanità. Una stanza dentro un appartamento fatiscente, senza mobili e con il pavimento divelto. Solo un grosso candelabro adornato da cento cristalli che splendono alla luce di lampadine elettriche fa arredamento (illumina i presenti?), posato per terra e inclinato su di un lato. “Qui c’è il Munaciello, lo vedi? Abbassati a baciargli il capo”. La donna lo fa e San Gennaro ne approfitta per infilarle una mano “nel culo” e “non sul culo”. “Ecco, adesso potrai avere figli!”.

Questo è ciò che riferisce la donna, la zia-musa, bellissima, di Fabiolino-Paolo Sorrentino che rivive così quell’amarcord drammatico dei suoi sedici anni.

Il marito non crede alla moglie “zoccola” e la picchia, per l’ennesima volta, anche perché le ha trovato duecentomila lire nella borsetta e l’accusa di essersi prostituita ancora una volta.

Se vogliamo tentare di guardare l’ultimo film del premio oscar napoletano, non possiamo non partire da qui, da questa prima scena che mi ha emozionato.

Tanti diranno, ma di cosa stiamo parlando? Sono tutte puttanate!

Ma il grande Carl Gustav Jung insegna che la realtà soggettiva equivale alla realtà oggettiva e — per spiegare cosa ciò significhi — cita l’esempio dell’ottimista che finisce anche per trovare un portafoglio per strada pieno di soldi e senza documenti o del pessimista che cade spesso per le scale.

Che importanza ha se il fatto sia o no “scientifico”; non siamo davanti a una commissione presieduta da Burioni, Bassetti, Pregliasco e Lilli Gruber: qui Fabiolino ci ha semplicemente permesso di entrare nel suo cuore e nella sua mente. E in altra parte del film, incontrando nuovamente l’adorata zia, le dice: “Io ti ho creduto sul fatto del Munaciello.”…

Forse a qualcuno questo film non piacerà tanto perché non lo trova poetico, per nulla esotico, quasi banalmente ordinario, al contrario che so, di un “Lezioni di piano” della grande Jane Campion. Certo, gli anni Ottanta (Sorrentino è nato a Napoli il 31 maggio 1970, alle 23.50, ed è pertanto un Gemelli con Ascendente Aquario e con la Luna in Toro; ma è molto di più un Cancro, dato il suo Sole in IV Casa), il Vomero, le auto e gli ingorghi di quell’epoca, gl’interni ordinari delle case… Ci sembra tutto così terribilmente usuale e scontato. Ma forse perché guardiamo tutto ciò con gli occhi di italiani o di napoletani. Immaginiamo, invece, di osservare ogni cosa con la vista di un indigeno neozelandese del diciannovesimo secolo: ecco, allora, una magia almeno pari se non superiore a quella che ogni cittadino del mondo riconosce negli amarcord felliniani.

Paolo Sorrentino ci ha aperto, per poco più di due ore, le cicatrici del suo petto dove vediamo, tra l’altro: l’immenso amore per la Mamma — ch’egli vede perfino come una giocoliera impegnata a far volare tre mele e che dialoga spesso a mezzo fischi con il marito —, l’insopportabilità di scoprire che suo padre “si manteneva” un’altra donna, l’entusiasmo per il “miracolo” di un Maradona che viene a giocare nel Napoli, i primi sospiri per la zia-musa o per “Patrizia”, l’insostenibile dolore per la morte drammatica dei genitori (asfissiati dal monossido di carbonio di una stufa difettosa durante un week-end a Roccaraso dove doveva trovarsi anch’egli), l’atrocità di non poter rivedere i loro corpi nell’ospedale dove giacciono senza vita subito dopo la tragedia…

Tutto filtrato dallo sguardo, dal cuore e dalla mente di un ragazzo che vuole fare del cinema. Rivolgendosi ad Antonio Capuano: “Guardare è l’unica cosa che so fare”.

Ordinario, si diceva.

Ma potremmo mai affermare che il mistero del volo di un colibrì sia meno spettacolare della legge di relatività scoperta e spiegata da Albert Einstein?

Osserviamo con un po’ più di attenzione i tre interni principali del film ed escludendo, volutamente, la brevissima incursione in quelli dei vicini che aspirano a diventare attori o del bilocale di Roccaraso appena accennato.

La prima casa, in senso pieno, che Paolo Sorrentino ci mostra è quella della zia-musa: ultramoderna, bellissima, quasi impossibile per quegli anni. Paolo la vede come la sede del futuro o del suo futuro (dov’è la differenza?).

Casa sua, quella degli amati genitori, amati entrambi, anche il padre “comunista” che “si teneva un’altra donna”: quella è davvero riconoscibilissima, assolutamente una tipica casa vomerese, semi-borghese, degli anni Ottanta, con terribili mattonelle alle pareti della cucina, un televisore senza telecomando e altri oggetti di banale quotidianità.

Poi, l’altra, quella della “Baronessa”: essa sembra davvero un tempio del passato, una specie di luogo ancestrale da cui veniamo tutti, con arredamenti classici e ottocenteschi, lampadari antichi e tante cose che ci ricordano da dove giungiamo. Lì Fabiolino viene invitato dalla padrona di casa, la Baronessa, a pettinarle i capelli e anche la “spaccata”, la “fessa”, come più esplicitamente dice Jep Gambardella ne “La grande bellezza”: un totem che è stato tale per tutti noi, dato che pur essendo junghiani da sempre non possiamo non accettare che Freud stupido non era…

I bestiari del film non sono né più né meno di tutti gli altri lungometraggi di questo grandissimo nostro contemporaneo: dalla cafona-camorrista che indossa il visone nero anche ad agosto e mangia enormi e sbrodolanti mozzarelle di bufala, con le mani, ma sempre tenendo strette tra le mani tantissime chiavi dei propri preziosi, allo zio avvocato e saggio uomo, a una delle tante corti dei miracoli già viste e che vedremo ancora, amplificate dall’aberrazione ottica di primi piani ottenuti con esagerati grandangoli.

Sorrentino, in questo film, non ci fa volare altissimi come ne “La grande bellezza”, ma ci offre sempre e comunque un pezzo d’arte unico, uno spaccato umano assolutamente raro e anche un’antologia di meravigliose visioni di quella città che tutti amiamo ed odiamo al tempo stesso: superbe, in particolare, le scene girate all’alba nelle grotte di Posillipo dalle quali Capuano si tuffa di fronte al Vesuvio.

Ma tutto il film, a mio parere, come sempre nel caso dell’Autore, è un caleidoscopio di raro  incantesimo con specifici e mirati singoli approfondimenti in figure dell’amarcord personalissimo del regista.

Il contrabbandiere che gli fa scoprire come uno scafo offshore che va a duecento all’ora faccia “Tuf, tuf, tuf…” e che lo esorta, da carcerato, a riconoscere e a godere di quella meravigliosa libertà di cui lui è ormai privato per tanti anni a venire; il nichilismo e la sprezzante visione del mondo e della vita del suo maestro Antonio Capuano; ma anche il salesiano silenzioso, troppo silenzioso e immobile, sullo sfondo della sua giovinezza.

Sorrentino ci regala, poi, cammei di rara suggestione in scene apparentemente ordinarie e banali: lui che guida il motorino su cui sono anche i due genitori e tutti e tre ridono, ridono, ridono… Non sorridono. Ma anche la poetica e dolcissima sequenza in cui Fabiolino immagina come siano morti i suoi cari, con la Mamma che più Mamma non potrebbe essere (Sorrentino è soprattutto un Cancro!) che dolcemente appoggia la propria testa sulla spalla del marito e sembra addormentarsi.

Spero di rivederlo ancora tante volte.

Intanto Fabiolino è diventato Paolo Sorrentino e continua a pensare agli offshore che a duecento all’ora fanno “Tuf, tuf, tuf…”.



Per Tutti. Non è una notizia importante, ma vi invito a leggerla perché potrà spiegare, a qualcuno, il perché di un certo rumore di fondo che disturba, da qualche anno, l’Astrologia:

http://ilblogperidepressi.wordpress.com/ 

For Everybody. It is not an important news, but I invite you to read it because it can explain, to someone, the why of a certain noise leading that disturbs, from a few years, the astrology:

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Ciro Discepolo

www.cirodiscepolo.it  

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