Non è facile seguire, apprezzandolo, il cinema del nostro
grande autore cinematografico, soprattutto se vogliamo leggere i suoi racconti
in modo alto, consapevole. E per fare ciò credo si debbano possedere lenti
potenti prodotte da bravi occhialai che sappiano parecchio di navigazioni a
mezzo della psicoanalisi, dell’astrologia, del linguaggio simbolico, delle
tematiche junghiane in particolare e di tanta cultura in generale.
Prendiamo le prime scene, per esempio. Sorrentino, con il
drone o con un elicottero (non ha importanza) ci fa entrare, insieme a lui,
planando dall’alto, nella città di Napoli, grosso modo sotto il museo di San
Martino. È il tramonto, in tutta evidenza: Castel dell’Ovo è illuminato dal
sole dalla parte giusta. Poi la camera insegue la corsa, su di una via
Caracciolo vuota, di un splendido veicolo anni venti/trenta, nero e lucidato
alla perfezione. Dentro c’è niente meno che San Gennaro, elegantissimo, in
abito da prima al San Carlo, che avvicinandosi ad una donna bella e procace
alla fermata del bus, in uno di quei casini di traffico già raccontati da De
Crescenzo, chiede: “Vuoi un passaggio? Il 412 chi sa fra quante ore passerà…”.
La donna è riluttante. San Gennaro la chiama per nome e le dice anche il nome
del marito “Franco, mi sembra…”. “Tu non puoi avere figli, ma se vieni con me
ti spiego come fare per averne”. Allora la donna sale in auto e va con lui in
una vecchissima casa dei Quartieri Spagnoli o della Sanità. Una stanza dentro
un appartamento fatiscente, senza mobili e con il pavimento divelto. Solo un
grosso candelabro adornato da cento cristalli che splendono alla luce di
lampadine elettriche fa arredamento (illumina i presenti?), posato per terra e
inclinato su di un lato. “Qui c’è il Munaciello,
lo vedi? Abbassati a baciargli il capo”. La donna lo fa e San Gennaro ne
approfitta per infilarle una mano “nel culo” e “non sul culo”. “Ecco, adesso
potrai avere figli!”.
Questo è ciò che riferisce la donna, la zia-musa, bellissima,
di Fabiolino-Paolo Sorrentino che rivive così quell’amarcord drammatico dei
suoi sedici anni.
Il marito non crede alla moglie “zoccola” e la picchia, per
l’ennesima volta, anche perché le ha trovato duecentomila lire nella borsetta e
l’accusa di essersi prostituita ancora una volta.
Se vogliamo tentare di guardare l’ultimo film del premio
oscar napoletano, non possiamo non partire da qui, da questa prima scena che mi
ha emozionato.
Tanti diranno, ma di cosa stiamo parlando? Sono tutte
puttanate!
Ma il grande Carl Gustav Jung insegna che la realtà
soggettiva equivale alla realtà oggettiva e — per spiegare cosa ciò significhi
— cita l’esempio dell’ottimista che finisce anche per trovare un portafoglio
per strada pieno di soldi e senza documenti o del pessimista che cade spesso
per le scale.
Che importanza ha se il fatto sia o no “scientifico”; non
siamo davanti a una commissione presieduta da Burioni, Bassetti, Pregliasco e
Lilli Gruber: qui Fabiolino ci ha semplicemente permesso di entrare nel suo
cuore e nella sua mente. E in altra parte del film, incontrando nuovamente l’adorata
zia, le dice: “Io ti ho creduto sul fatto del Munaciello.”…
Forse a qualcuno questo film non piacerà tanto perché non lo
trova poetico, per nulla esotico, quasi banalmente ordinario, al contrario che
so, di un “Lezioni di piano” della grande Jane Campion. Certo, gli anni Ottanta
(Sorrentino è nato a Napoli il 31 maggio 1970, alle 23.50, ed è pertanto un
Gemelli con Ascendente Aquario e con la Luna in Toro; ma è molto di più un
Cancro, dato il suo Sole in IV Casa), il Vomero, le auto e gli ingorghi di
quell’epoca, gl’interni ordinari delle case… Ci sembra tutto così terribilmente
usuale e scontato. Ma forse perché guardiamo tutto ciò con gli occhi di
italiani o di napoletani. Immaginiamo, invece, di osservare ogni cosa con la
vista di un indigeno neozelandese del diciannovesimo secolo: ecco, allora, una
magia almeno pari se non superiore a quella che ogni cittadino del mondo
riconosce negli amarcord felliniani.
Paolo Sorrentino ci ha aperto, per poco più di due ore, le
cicatrici del suo petto dove vediamo, tra l’altro: l’immenso amore per la Mamma
— ch’egli vede perfino come una giocoliera impegnata a far volare tre mele e
che dialoga spesso a mezzo fischi con il marito —, l’insopportabilità di
scoprire che suo padre “si manteneva” un’altra donna, l’entusiasmo per il “miracolo”
di un Maradona che viene a giocare nel Napoli, i primi sospiri per la zia-musa
o per “Patrizia”, l’insostenibile dolore per la morte drammatica dei genitori
(asfissiati dal monossido di carbonio di una stufa difettosa durante un
week-end a Roccaraso dove doveva trovarsi anch’egli), l’atrocità di non poter
rivedere i loro corpi nell’ospedale dove giacciono senza vita subito dopo la
tragedia…
Tutto filtrato dallo sguardo, dal cuore e dalla mente di un
ragazzo che vuole fare del cinema. Rivolgendosi ad Antonio Capuano: “Guardare è
l’unica cosa che so fare”.
Ordinario, si diceva.
Ma potremmo mai affermare che il mistero del volo di un
colibrì sia meno spettacolare della legge di relatività scoperta e spiegata da
Albert Einstein?
Osserviamo con un po’ più di attenzione i tre interni
principali del film ed escludendo, volutamente, la brevissima incursione in
quelli dei vicini che aspirano a diventare attori o del bilocale di Roccaraso
appena accennato.
La prima casa, in senso pieno, che Paolo Sorrentino ci
mostra è quella della zia-musa: ultramoderna, bellissima, quasi impossibile per
quegli anni. Paolo la vede come la sede del futuro o del suo futuro (dov’è la
differenza?).
Casa sua, quella degli amati genitori, amati entrambi, anche
il padre “comunista” che “si teneva un’altra donna”: quella è davvero
riconoscibilissima, assolutamente una tipica casa vomerese, semi-borghese,
degli anni Ottanta, con terribili mattonelle alle pareti della cucina, un
televisore senza telecomando e altri oggetti di banale quotidianità.
Poi, l’altra, quella della “Baronessa”: essa sembra davvero
un tempio del passato, una specie di luogo ancestrale da cui veniamo tutti, con
arredamenti classici e ottocenteschi, lampadari antichi e tante cose che ci
ricordano da dove giungiamo. Lì Fabiolino viene invitato dalla padrona di casa,
la Baronessa, a pettinarle i capelli e anche la “spaccata”, la “fessa”, come
più esplicitamente dice Jep Gambardella ne “La grande bellezza”: un totem che è
stato tale per tutti noi, dato che pur essendo junghiani da sempre non possiamo
non accettare che Freud stupido non era…
I bestiari del film non sono né più né meno di tutti gli
altri lungometraggi di questo grandissimo nostro contemporaneo: dalla
cafona-camorrista che indossa il visone nero anche ad agosto e mangia enormi e
sbrodolanti mozzarelle di bufala, con le mani, ma sempre tenendo strette tra le
mani tantissime chiavi dei propri preziosi, allo zio avvocato e saggio uomo, a
una delle tante corti dei miracoli già viste e che vedremo ancora, amplificate
dall’aberrazione ottica di primi piani ottenuti con esagerati grandangoli.
Sorrentino, in questo film, non ci fa volare altissimi come
ne “La grande bellezza”, ma ci offre sempre e comunque un pezzo d’arte unico,
uno spaccato umano assolutamente raro e anche un’antologia di meravigliose
visioni di quella città che tutti amiamo ed odiamo al tempo stesso: superbe, in
particolare, le scene girate all’alba nelle grotte di Posillipo dalle quali
Capuano si tuffa di fronte al Vesuvio.
Ma tutto il film, a mio parere, come sempre nel caso dell’Autore,
è un caleidoscopio di raro incantesimo
con specifici e mirati singoli approfondimenti in figure dell’amarcord personalissimo
del regista.
Il contrabbandiere che gli fa scoprire come uno scafo
offshore che va a duecento all’ora faccia “Tuf, tuf, tuf…” e che lo esorta, da
carcerato, a riconoscere e a godere di quella meravigliosa libertà di cui lui è
ormai privato per tanti anni a venire; il nichilismo e la sprezzante visione
del mondo e della vita del suo maestro Antonio Capuano; ma anche il salesiano
silenzioso, troppo silenzioso e immobile, sullo sfondo della sua giovinezza.
Sorrentino ci regala, poi, cammei di rara suggestione in
scene apparentemente ordinarie e banali: lui che guida il motorino su cui sono
anche i due genitori e tutti e tre ridono, ridono, ridono… Non sorridono. Ma
anche la poetica e dolcissima sequenza in cui Fabiolino immagina come siano
morti i suoi cari, con la Mamma che più Mamma non potrebbe essere (Sorrentino è
soprattutto un Cancro!) che dolcemente appoggia la propria testa sulla spalla
del marito e sembra addormentarsi.
Spero di rivederlo ancora tante volte.
Intanto Fabiolino è diventato Paolo Sorrentino e continua a
pensare agli offshore che a duecento all’ora fanno “Tuf, tuf, tuf…”.